giovedì 24 giugno 2010
Italia addio (ma ki wi ha visto?)
Anche l'Italia (vedi post precedente sulla Panda) è una squadra profondamente italiana.
E' piccola piccola.
Consuma senza rendere.
Ha al momento dotazioni di serie modeste.
Certi passaggi sono orribili.
Il tiro in porta invece non è ancora di serie.
Sì, l'Italia è una squadra profondamente italiana.
E' vero made in Italy calcistico.
Ma allora perché non andarla a produrre in Slovacchia?
PS: calma, non sbagliamoci. Non siamo stati cacciati da questo mondiale dall'aggressiva Slovacchia o dal dinamico Paraguay, ma dalla lontana (e sgomitante) Nuova Zelanda. Nella classifica Fifa sta al 78mo posto, noi al quinto (in probabile discesa). Per chi non ci avesse ancora ragionato il paesello dei maori è esattamente ai nostri antipodi e ha la forma anche lui di uno stivale, ma rovesciato. Però nessuno solo per questo potrà permettersi di dire che le cose sono andate al contrario del giusto. Purtroppo sono andate invece proprio come dovevano...
La Panda tra sindacalisti e animalisti
La Panda è un'auto profondamente italiana.
E' piccola.
Consuma.
Ha dotazioni di serie modeste.
Certi colori sono orribili.
Gli alzacristalli elettrici invece non sono di serie.
Nemmeno la chiave di scorta.
E' scomoda, ma sa arrampicarsi (anche sugli specchi, proprio come noi).
Sì, la Panda dal 1980 è un'auto profondamente italiana.
E' vero made in Italy.
Ma allora perché continuare a produrla in Polonia?
PS: il panda, invece, è un animale in via di estinzione. E persino i cinesi (che quando si tratta di diritti umani stanno verso la parte bassa della classifica) hanno deciso di salvarlo. Possibile che al mondo ancora adesso sia più facile salvare un orsetto piuttosto che qualche migliaio di posti di lavoro? Al prossimo referendum a Pomigliano si lasci ai lavoratori la vera libertà di coscienza: sia permesso loro di scegliere tra Cgil, Cisl, Uil. E WWF...
sabato 5 giugno 2010
Trento e i canederli dell'informazione
Al Festival dell'Economia di Trento quest'anno si parlava di crisi e informazione, dell'importanza che avrebbe avuto la seconda a farci capire meglio la prima, e via discorrendo con una sfilza di dottissime prolusioni di prof, direttori e massmediologi che tra un morso al canederlo e una fetta di strudel hanno avuto modo di andare a caccia di colpevoli.
Se credete, andate a vedere il programma degli interventi e vi accorgerete che i presenti sono stati scelti - ma guarda un po' - tra lo zabaione dei bravi direttori di quotidiani e di telegiornali, tra i celebranti di noti e rinomati talk show. I soliti.
E allora viene da farsi la domanda da poveri peones (e onestamente ci rode non essere a Trento, ma noi si sa: non siamo abbastanza a destra, né abbastanza a sinistra, né abbastanza cremini, però nemmeno cretini): dov'erano nei giorni della crisi quando i loro giornali ce la raccontavano attraverso le penne di qualche consigliere di Confindustria o di qualche fondazione bancaria? Quando a fare i fighi sotto i riflettori c'erano i vari barbagianni che da lustri si spartiscono le comparsate a gettone?
A Trento, certo, hanno fatto tutti autocritica, si sono battuti il petto (e poi via a farsi l'ultimo canederlo...), ma forse si è persa l'occasione di focalizzare il vero problema che ha l'informazione economica nel nostro paese: il linguaggio.
Quando andammo in libreria con "Vaffanbanka!" un importante direttore (di un importante quotidiano) ci disse che avevamo fatto "un discreto tentativo di divulgazione popolare".
Discreto e popolare, capito? L'idea che ci possa essere qualcuno che tenta di spiegare alla gggènte quello che pochissimi spiegano, utilizzando la lingua dei nostri bar e non quella dei pub (swap, switch, benchmark...), è vista come un esercizio da peones. Lo vogliamo ribadire: da ignoranti siamo ottimi clienti e l'informazione economica nel nostro paese era e resta al servizio dei suoi finanziatori pubblicitari e dei suoi azionisti.
Che sponsorizzano i festival e, sotto sotto, sperano che restiamo ignoranti. E peones.
La potenza è nulla senza controllo
E' veramente curioso.
Negli ultimi due anni sono state usate tonnellate di inchiostro e qualche miliardo di litri di fiato per tentare di spiegare al mondo che la crisi era nata da una mancanza di regole o, quando c'erano, dalla loro inadeguata applicazione.
Abbiamo assistito a summit, e a summit sui summit (senza contare i "framework", i "protocolli" e le "intese") che, oltre a regalare indimenticabili weekend in posti ameni ai capoccioni dei principali governi dei principali paesi dei principali continenti, avevano l'obiettivo altissimo e sacrale di regalarci regole.
Regole sulla finanza, sull'economia, sui derivati, sui mutui, sulle imprese, sulla concorrenza.
Due anni dopo, nel momento in cui la prima grande economia del mondo spende energie (finalmente) concrete nella loro elaborazione, noi andiamo esattamente nella direzione opposta.
"Meno regole per tutti": è questa la ricetta del rilancio dell'economia nel nostro paese. Ma è bene non confondersi: il liberismo di cui si parla per cercare quanto meno di rendere l'intervento orecchiabile, è proprio un'altra cosa, e comunque è nato in culture e paesi dove la tradizione all'autoregolamentazione e al diritto sono molto radicate.
Se però vi piace l'idea di aprire un ristorante senza licenza è venuto il vostro momento.
E' vero che viviamo un eccesso di leggi e leggine, ma che diventi possibile fare tutto quello che non è proibito fa assumere alla proposta contorni al momento un po' inquietanti.
Ricordate, lo diceva anche la pubblicità: la potenza è nulla senza controllo.
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